In sight: Snowpiercer, altra (forse ultima) fermata



Di Snowpiercer hai parlato almeno tre volte: prima del film del visionario ma geniale coreano Sung Joo; poi in due botte pure del fumetto originario di metà degli anni ’80. Ed ecco che nella tua bella carrozza compare un regalo: Snowpiercer Terminus, due volumi di 130 pagine ciascuno che narra l’ultima storia in ordine cronologico dell’epopea creata da Jean Marc Rochette stavolta assistito alla matita da Olivier Bocquet. 

Figurati se non ti ci getti. Pronti? Non chiedi nemmeno il biglietto. 


Quello che fin dalle prime pagine ti ha colpito è stato lo stile del disegno. Tratto minimale, secco, tagliente, privo di fronzoli; colorazioni cupe e fredde, prevalentemente in bianco e nero con qualche rara concessione di sfumati grigi o beige e tinte rosse accese improvvise nelle poche ma forti scene splatter. Mai come in questo caso ti è balzata in mente la parola “espressionista” con forte accento sulla necessità di esternare qualcosa che preme per venire fuori senza lasciare sosta. Nello speciale alla fine del secondo volume scopri pure che, durante i disegni, il buon Bocquet si rompe pure una mano; nonostante i consigli di rallentare di Rochette, il disegnatore si stecca la mano e continua il suo lavoro, non può fermarsi. Ad ogni modo lo stile crea un’atmosfera claustrofobica e ansiogena che ti tiene incollato. 

E lo fa pure la storia narrata che riassumi solo molto in breve. Uno Snowpiercer – chiamato Olga, con 10 vagoni rimasti – decide di ispezionare un complesso sommerso dalla neve e vi trova una comunità che apparentemente li accoglie in maniera abbastanza benevola, dando loro vestiti e cibo; primo passo verso l’integrazione progettata a Future Land e grosso affare per loro che difettavano ormai di cibo, riscaldamento e medicinali. Peccato che, alla fine, si tratti di un parco divertimenti costruito sopra una centrale nucleare non proprio inattiva gestito da un paio di ex scienziati con idee molto peculiari sulla maniera in cui la razza umana dovrà essere salvata e perpetrata. Alla fine i protagonisti realizzeranno che è molto meglio proseguire con il proprio Snowpiercer e affrontare stenti e pericoli a patto di mantenere la loro libertà: ovviamente il tutto non avverrà in maniera pacifica ma con una vera e propria lotta. 

L’organizzazione dello Snowpiercer, stante la brevità dell’opera, viene accennata in maniera molto veloce. Prima di arrivare al complesso da esplorare, spinti dall’apparizione di 3 bambini che dichiarano di essere stati parte del progetto per l’adattamento genetico al freddo, la piccola comunità si rivolta al potere costituito rappresentato dal Consiglio e in particolare da Brady che finisce crocefisso. La nuova favorita è la vecchiaccia Laura Lewis che dichiara subito di essere stata eletta dal popolo. 


Maggiori sono ovviamente le informazioni sulla comunità dei “topi” – dalla maschera di protezione indossata – nel parco divertimenti. Innanzitutto, l’accesso alla zona è consentito solo dopo accurati esami del sangue, marchi ai bambini e vaccinazioni: le malattie sono un problema e viene perciò applicata una quarantena rigida ma piacevole posto che i nuovi arrivati vengono deliziati con frutta dalle anormali dimensioni causa radiazioni. La comunità infatti pratica l’agricoltura e ricava molto poi dal Bamboo – ad esempio un liquore che sarebbe pure proibito ma chissene -; sono dotati delle moderne comodità – elettricità, acqua corrente grazie all’impianto di depurazione, termoregolazione – e di svaghi di livello – cinema, parco giochi, museo - ; praticano anche il commercio tra loro come si evince dalla presenza di monete il cui valore è proporzionale alla dimensione. Tutti coloro che vi fanno parte lavorano: si vedono assegnati un incombenza – che possono anche entro certi limiti scegliere liberamente – e la portano a termine. Sembra una società funzionante, insomma. 

Salvo che è creata sopra una centrale nucleare ancora attiva da cui sì arriva l’energia ma pure le radiazioni, ben visibile nelle abnormi dimensioni della frutta ottenuta in serra e nei bambini, completamente deformi, che nascono. Il DNA è ormai stato corrotto: lo sanno benissimo del resto i gestori della comunità, Wilfrid e Nora Headwood – testa di legno, manco a farlo a posta un nome una garanzia – che ammettono viaggiatori in maniera da poterne ricavare sangue fresco – che si iniettano pure così come si trapiantano gli organi riuscendo così a raggiungere quasi 110 anni a testa – e, soprattutto, da poter ingravidare le donne. Perché nei primi 4 giorni della gravidanza ne possono ricavare le cellule staminali, ossia non specializzate, che con la loro tecnologia possono convertire in tutto quello che vogliono: tessuti, organi, sangue per perpetuare la razza umana. 

Al di là della convincente trama e del contesto sociale, qualche informazione ulteriore l’hai apprezzata.

Così è notevole rivedere Yona e il bambino che erano gli unici superstiti dello Snowpiercer come da opera originale: erano riusciti ad intrufolarsi nella comunità restando però nascosti. Così come lo è apprendere che il tempo dalla grande calamità è stato dimenticato: non si sa se siano passati 50 o 100 anni – si misura in “mani” dove una mano dovrebbe essere un lustro - e, soprattutto, che vi erano 10 Snowpiercer – e noi ne abbiamo quindi visti solo 2 – 7 dei quali arrivati in questa comunità, 3 persi. Sconvolgente è poi il finale con la presenza di pinguini – quindi la vita nel pianeta, al pari di quanto visto nel film di Sung Joo, non si è estinta – e la morte del protagonista secondo quella che potrebbe essere una usanza comune molto simile a quella degli Eschimesi: quando vecchio e non più utile alla comunità, si allontana per morire da solo nei ghiacci. 


In definitiva una buonissima lettura e la speranza per qualche altra avventura, sebbene non ve ne sia notizia e il titolo dell’ultimo dei due tomi – “conclusione” – sembri dire il contrario, è sempre forte. Quanto un treno che spacca i ghiacci.

  
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