Dopo quel capolavoro – almeno per te – che era Until Dawn, l’hype ti era cresciuto come nemmeno l’euforia – e qualcosa d’altro – ad un bel autogoal di Koulibaly al 92esimo: ti attendevi qualcosa di veramente notevole da parte della Supermassive Games con il nuovo Man of Medan.
In realtà hai capito subito che la ricetta sarebbe stata quella tradizionale, fin dai primi screenshots; non che ti attendessi qualcosa di rivoluzionario, sia chiaro, però davvero le reminescenze si sprecavano ad ogni singolo frame. Ciò nonostante non sei deluso: la formula classica dei QTE (Quick Time Events, per i meno avvezzi) condita a scelte – qui imperniate su una bussola e sempre in numero tre di cui una ignavica e non curarti di loro ma guarda e passa - per sviluppare una trama comunque affascinante e con un pizzico di esplorazione guidata dei vari ambienti comunque ti piace.
Poi però…dopo la pausa.
Poi però ci sono delle falle grandi come quelle che hanno fatto schiantare la nave in cui i protagonisti – per loro scelta, bella vacanza devi dire – si trovano a dover muoversi.
Innanzitutto non puoi non notare che la grafica talvolta scricchiola di brutto. Qualche modello non è dei migliori – parli ad esempio delle proporzioni dei corpi dei protagonisti e del fatto che talvolta assumono pose e posture piuttosto rivedibili - ; più di qualche animazione – specialmente quelle dei movimenti – mostra una legnosità che proprio non ti saresti aspettato se non da un bella serie di Netflix con il suo consueto design da PS2 – non scherzi, vedere qui - ; persino qualche calo di frames inaspettato e qualche scattosità di troppo non depongono a favore del nuovo titolo della Supemassive.
In secondo luogo le meccaniche di gioco, sia pure adattate e mascherate, sono proprio in tutto e per tutto quelle del celebre precursore. Scelte ed è ok, è caratteristica di questo tipo di giochi; QTE ed è ok, è caratteristica di questo tipo di gioco; poi però la veste in cui vengono presentati gli altri particolari che tanto ti era piaciuta in Until Dawn qui proprio non brilla. Così:
- vi sono le premonizioni che i protagonisti possono attivare scoprendo e visualizzando dei quadri nei vari ambienti. Divise in nere – di morte dei personaggi -, bianche – di azioni chiave per il gameplay – e dorate – solo una, una gustosa anticipazione di Little Hope, secondo titolo dell’antologia annunciato per il 2020 -, belle sicuramente ma tremendamente uguali come concetto ai Totem di Until Dawn e senza l’effetto farfalla e a poco vale dare a questa meccanica un nome diverso.
- vi sono i segreti – in sostanza scene già viste oppure documenti -, stivati in apposito menù e collegati a blocchi, che ricalcano esattamente il menù di Until Dawn e dare uno sfondo diverso alla schermata a poco serve.
- vi è esplorazione limitata che, per qualche motivo, sembra meno estesa di quella, già poco accentuata, del predecessore; pochi davvero i punti notevoli a schermo in zone comunque non proprio risicate e quel fastidioso – ma qui dipende dalla tua anima da retrogamer incallito – luccichio che li sottolinea tutti rendendoli impossibili da missare a meno che non si voglia o si sia più sbadati di Forest Gump davanti ad una scatola di cioccolatini.
- vi sono i parametri di interazione dei personaggi con gli altri, esattamente secondo gli stessi grafici e la stessa logica di Until Dawn; l’aggiunta nella schermata del personaggio attivo di alcune parole che delineano gli stati d’animo possibili del protagonista nel dato momento in realtà non porta proprio nulla di eccitante – almeno a tuo parere – dato che questi dovrebbero piuttosto essere facilmente desumibili in altri modi – dialoghi ma soprattutto azioni ed espressioni facciali dei protagonisti che tuttosommato fanno comunque il loro dovere –. Se l’idea è quella di sostituire l’effetto farfalla – vero cavallo di battaglia e piacevole innovazione di Until Dawn – con la moralità – che dovrebbe parimenti determinare le sorti reciproche dei protagonisti - , beh, stavolta non sei certo balzato dalla sedia.
- vi sono gli intermezzi di un “curatore” che dovrebbe essere un narratore esterno e che in tutto e per tutto assomiglia allo psicologo di Until Dawn con la limitazione che influisce poco – salvo enigmatici indizi forse solo quando, alla fine dell’atto 2, ti offre un spoiler che sarà comunque bello criptico – sugli accadimenti; interessante invece si presenti talvolta fisicamente sulla scena come uomo incappucciato e nascosto.
- i personaggi sono tratti anche in questo caso da attori veri solo che stavolta – ma potrebbe pure trattarsi della tua ignoranza in proposito – ne conosci proprio pochi – eufemismo –.
- infine i trofei su PS4 o simili per le altre piattaforme, semplicemente posti a ludibrio e vanto del giocatore che davvero nulla portano al gioco in sé e per sé.
Quindi? Quindi il gioco comunque fa la sua parte per tutta una serie di motivi. Come a dire che, se la formula funziona, non c’è motivo di cambiarla così tanto.
Innanzitutto indubbio è il fascino delle atmosfere dei vari ambienti. La stessa location – una nave, la Ourang Medan, naufragata per motivi mai conosciuti intorno agli anni ’40 (fatto storico peraltro davvero avvenuto anche se con contesto diverso) in cui i malcapitati, manco a dirlo, dovranno riparare causa nubifragio che mette KO il loro mezzo, la Duke of Milan -, seppure vista altre volte – si pensi ad esempio a Resident Evil Revelations - , fa il suo dovere; ci si aggiungono una serie di inquadrature comunque ispirate, una scelta ottima della paletta cromatica e un sapiente gioco di luci – poche ma ispirate – ed ombre.
Gli screamer, sebbene anche abbastanza banalotti e molto spesso pure prevedibili, comunque sono ben realizzati con i classici canoni dell’essere improvvisi, di accompagnarsi ad un sonoro confacente – ben studiato il timing degli aumenti di volume – di impaurire visivamente benino e, soprattutto, sono ben posizionati all’interno della storia riuscendo a risollevare momenti che potrebbero risultare troppo lungamente privi di emozioni forti.
La componente horror in generale, devi dire, fa la sua porca figura. E la fa in un po’ tutte le componenti: visiva – i modelli degli obbrobri sono comunque piacevoli, anche se scopiazzati pure quelli da Until Dawn perché un mostro con gli arti esageratamente lunghi e il corpo esattamente magrissimo anche se scheletrico, sempre un Wendigo è; gli ambienti col loro essere angusti e i loro bei giochi di luci ed ombre convogliano bene un senso di claustrofobia che regna davvero sovrana; le inquadrature sono ben pensate - ; sonora – già hai detto degli screamer; anche il sonoro ambientale in generale e quei bei motivetti ansiogeni, intervallati da momenti di silenzio quasi totale, funzionano bene -; di gameplay – con le classiche dinamiche di fuga problematica in luoghi angusti oppure i QTE che invitano a mantenere la calma -; anche la trama, non originalissima, contribuisce abbastanza.
A proposito della trama: essa è prevalentemente ricostruibile grazie a documenti oltre che grazie ad una discreta elasticità di intelletto e la cosa ti piace. Piace un po’ meno che ci metta un pochettino a decollare e non sarà difficile trovarsi durante la prima ora – il gioco ne dura in media 4 o 5 - con l’impulso di mollare tutto: bisogna resistere, la costruzione lenta dell’inizio, caratterizzata da una volontà di spiegare in maniera troppo pedissequa personaggi e loro rispettive relazioni a scapito della componente horror, verrà poi ricompensata. Come nel predecessore, lo scopo è quello di uscire col maggior numero di protagonisti vivi e la vera novità è che stavolta i mostri che possono ucciderli non sono entità esterne ma…gli stessi personaggi per cortesia della sostanza chimica nota come Oro della Manciuria – a struttura molecolare cristallina, qualunque cosa questo possa significare e tranquillamente debellabile con una boccata d’aria fresca - che provoca delle allucinazioni demoniache. Su questo concetto semplice – ma efficace – si innesta in realtà il vero gameplay che sarà fortemente condizionato dalle scelte – anche le meno appariscenti – che si potranno prendere: anche solo decidere di prendere un’arma anziché lasciarla indietro oppure di non fare quel corridoio dove ci può essere una maschera antigas possono determinare pesantemente il destino dei protagonisti. Non è un caso che Man of Medan sia dichiarato dagli stessi autori come molto più ramificato – ossia con molti più possibili svolgimenti – di Until Dawn e, almeno su questo, te la senti di confermare.
Piace poi anche in linea di massima la maniera in cui gioco trolla pesantemente il giocatore facendogli credere che si tratti di una nave infestata di fantasmi quando invece, pian piano, si scopre che è un esperimento militare andato a male e lasciato lì’ per decenni. Tramite i documenti si prova pure ad inserire un sottofondo mitologico/esoterico con i concetti di satanismo o qualche riferimento vagamente mitologico che non ha però alcun tipo di riscontro nella realtà: hai provato – giuri – a cercare il Rituale di Threskem oppure l’Incantesimo di Soras ma non hai trovato nulla in proposito.
E se la trama non è magari la migliore mai vissuta ma convince, i finali rappresentano un’estrema spinta alla rigiocabilità, in maniera da aumentare la longevità dell’esperienza ben oltre le 3-4 ore di una prima run. Giocare solo una volta non permette di cogliere la storia nella sua interezza; sarà sicuramente interessante infatti esplorare i vari finali – raggruppabili in alcune tipologie base che poi però varieranno a seconda del numero di personaggi rimasti in vita – in maniera da aver più punti di vista e uno sguardo più ampio della situazione. Conscia di questo, Supermassive ha anche introdotto il “Curator’s Cut” ossia una espansione – per coloro che non hanno pre-ordinato – o un notevole add on – per coloro che lo hanno fatto – che permette di rivedere molte delle scene dal punto di vista di altri protagonisti sfruttando l'omniscenza del simpatico narratore. Sempre in questa ottica di rigiocabilità si inserisce pure la possibilità di fruire dell’esperienza in multiplayer, sia comodamente tutti seduti davanti ad un divano appassionatamente con la modalità “serata al cinema”, sia online: il trucco sta nel fatto che non si possono conoscere le scelte degli altri giocatori anche se la storia in definitiva è sempre la stessa pur notando che vi sono contenuti che non sarebbero accessibili nella modalità single player.
In definitiva te la senti di dire che Man of Medan non ti è dispiaciuto ma che molto potrebbe essere – e speri sarà – migliorato: è infatti soltanto il primo capitolo di una raccolta di storie dell’orrore dal nome The Dark Anthology che la Supermassive dovrebbe realizzare con l’aiuto di Bandai Namco a farle da distributore, il che dovrebbe essere garanzia di buona distribuzione, di soldi e quindi di miglioramenti. Non resta che attendere Little Hope con una…piccola speranza.
Man of Medan: poca innovazione per una formula vincente
Reviewed by radish7
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